È importante evidenziare eventuale conoscenza e utilizzo di strumenti musicali, esperienze di canto e di ballo, pratica di scherma e/o di altre discipline sportive o abilità di giocoleria.
Esplorazione dell’azione vocale in relazione allo spazio scenico e alla sua gestualità, come fenomeno antropologico e sociologico.
Osservazione dell’interferenza della reazione allo spazio fisico, relazionale e immaginativo nella dinamica fonatoria e nella superficie di risonanza del corpo.
Studio dello spazio vocale , inteso quindi come campo di azione del movimento e del gesto vocale nella voce parlata, nella performance individuale e collettiva.
1 – Studio dei parametri dell’azione vocale:
funzione e peculiarità delle vocali;
funzione e peculiarità delle consonanti;
articolazione e significato dell’equilibrio vocale/consonante;
evoluzione del gesto vocale -gesto vocale e respirazione.
2 – Studio della dimensione spaziale dell’azione vocale:
spazio visibile e spazio possibile;
spazio relazionale e prossemiche vocali;
spazio logico e paesaggio vocale;
interazione dei differenti spazi nell’azione vocale.
3 – Studio e Significato dell’estensione vocale:
estensione vocale nella dimensione intima;
variazione dell’estensione vocale nelle differenti forme espressive;
significato del “passaggio” vocale;
estensione vocale e omogeneità fonica;
personalità vocale e luoghi dell’estensione.
4 – La gestione dei differenti linguaggi nel gesto vocale:
il tempo della parola e il tempo del pensiero;
emissione e giudizio;
linguaggio logico e linguaggio mitico;
linguaggio analitico e emozionale;
linguaggio verbale, extraverbale e musicale.
Ovvero dello sperimentar vocale e strumentale, integrante dialoghi, personaggi, azioni, luoghi e scene di/in Shakespeare, in un’espressione polifonica che comprenda e completi la parola.
Voci e strumenti “coabitanti” (con noi, per noi) a comporre e ricomporre drammaturgicamente suoni, versi, gesti e immagini di shakespeariane, dentro (e oltre) lo spettacolo.
Perfezionamento – tramite avanzate tecniche didattico teatrali – teso a innescare/innestare tra loro le risorse indispensabili ad ogni interpretazione: corpo, voce, mente, anima, immaginazione, emozione, intenzione, intonazione, fraseggio ritmo, ascolto, risonanza.
Percorso empatico dove “verbale” (o “dattiloscritto”), “non verbale” e “paraverbale” cercano un profondo, malleabile, duttile punto di incontro comunicativo/interpretativo.
Per comprendere meglio come si dice, quel che si dice e perché lo si dice.
Come si ascolta, quel che si ascolta e perché lo si ascolta. Ciò attraverso attività diverse ma sempre orientate allo sviluppo di una percezione di se e dell’ altro da se, sempre più acuta e sottile.
Obiettivi e/o strategie
percezione corretta delle proprie capacità comunicative;
coscienza delle peculiarità personali e loro sviluppo;
abitudine allo scambio e relazione tra singoli e gruppo;
costruzione di un alfabeto comune;
individuazioni dei blocchi dinamici- singoli e di gruppo- psicofisici, meccanici e/o motivazionali;
mappatura emotiva e sensoriale di gruppo e individuale;
rafforzamento di umore e autostima;
riduzione dell’ ansia da prestazione;
dispersione dell’ego;
tecniche di rimozione e/o riduzione dei deficit;
tecniche contro autoascolto, autocompiacimento e auto sabotaggio;
acquisto di maggior fiducia nell’ osservatore/direttore esterno;
disponibilità al lavoro collettivo.
… ma guardate là: il mattino, col suo mantello di ruggine, cammina sulla rugiada di quell’ alta collina a oriente…
Lo dice Orazio, a chiudere la prima scena del primo atto di Amleto, una volta dissolto lo Spettro.
E’ un esempio, tra mille altri, della cosiddetta “scenografia verbale” di cui Shakespeare straripa. Giocoforza.
Al Globe o allo Swann non esistevano i “trompe l’oeil” del teatro all’italiana, coi suoi scenari dipinti, tradizione tramandatasi fino alla prima metà del novecento con esiti, in certi allestimenti lirici, davvero stupefacenti. Nelle “O” di legno del teatro elisabettiano, col pubblico a 180 gradi e il palcoscenico coperto aggettante per tre lati in platea, a vista, tutto doveva essere evocato, e con che forza di persuasione, dagli interpreti: foreste in movimento, tempeste da naufragio, battaglie feroci, albe spettrali, tramonti infuocati, notti stellate, e il caldo, il gelo, comete di sangue, e l’India, l’antica Roma, Messina, Verona, Venezia… tutto doveva apparire al pubblico, che vedeva un unico ambiente, di legno paglia e muratura ,solo in virtu’ di una presenza vocale corporea, con rari accorgimenti esterni, un tuono, il sibilo del vento, lo sparo d’ un cannone sul tetto della scena… i versi di alcuni animali un po’ di urla e poco altro.
Il pubblico di allora certo stava al gioco, nel parterre stava in piedi, andava e veniva, interloquiva con gli attori… in galleria i nobili mangiavano, chiacchieravano, amoreggiavano, ridevano, commentavano, un po’ come accade nel “sogno” durante la recita finale degli artigiani di Atene. Era un teatro per niente silenzioso, raffinato e popolare insieme. Dove le classi sociali convivevano per lo spazio della rappresentazione, ciascuna nel suo mondo ma con una sola passione: il teatro.
Domandiamoci, in quest’ epoca di microfoni (che, ricordiamolo, non fanno altro che amplificare, anche i difetti) e lasciando stare il talento, di quale e quanta energia, di che risorse puramente fisiche doveva poter disporre un ‘ interprete, per raggiungere lo scopo.
Una tacca di convinzione o di espressione in meno e la foresta diventava un boschetto, la tempesta uno scrollo d’ acqua, la battaglia una scaramuccia. E valeva anche per i personaggi, perché brillassero di luce propria, bisognava pedalare e pedalare inesausti sulla dinamo interiore, e sui muscoli del diaframma, per caricarli dell’ energia necessaria a dare loro una vita suggestiva, profonda.
Ci voleva – e ci vuole – un gran cuore, e buoni polmoni, e una mente aperta, ad accoglierlo e restituirlo, Shakespeare. E’ una corrente da milioni di volt, fulminante, ma da cui gli interpreti devono lasciarsi attraversare, per trasformarla, trasformandosi, in energia fruibile per tutti. Senza esplodere come la rana vissuta sempre in uno stagno, alla prima vista del mare.
Ci vuole forza, tanta. Molto più di quanto oggi ci serva e ancor più di quanto riusciamo a immaginare. Perché si deve abbandonare la nostra “comfort zone” ed approdare alle estremità, dentro e fuori di noi. Provare ad attingere a questa energia, voci di corpo e corpi di voce, sarà il nostro compito, con la benedizione di Shakespeare.
Basta recitare.
Siamo tanto preoccupati dalla performance, in ogni campo, che ci scordiamo degli effetti collaterali d’ una distorsione d’ intenti così clamorosa: un permanente senso d’ inadeguatezza.
Una volta esistevano colleghi, oggi sono perlopiù avversari, in una corsa ad eliminazione dove chi vince è, forse, lo striscione del traguardo. Non che sia una novità.
Già Shakespeare ammoniva “il sentiero del successo è tanto stretto, in due non ci si passa: appena ti distrai ti sommergono.” Ma siamo proprio sicuri che il “come” fare, ammesso d’azzeccarlo, esaurisca il “che” fare? O non varrebbe la pena di perdere un po’ di tempo a indagare il “perché” fare? Non è la necessità, forse, a determinare – naturalmente – “cosa” e “modo”?
Il laboratorio prende spunto da questa riflessione sulla necessità d’una necessità, per fare teatro. Arte del recitare, i cui esiti più alti si confondono col paradosso: del non recitare. E’ un essenziale trekking tra i fondamentali dell’artigianato d’ attore, ad eliminare orpelli inutili, di sfioro un poco alle radici semi magiche della professione, con qualche sosta ad esaminare anche alcuni trucchi del mestiere, elementari e fondamentali insieme, in modo da poter disperdere gli accumuli del maggior nemico in arte, il nostro imperversante ego, signore e padrone del come se, liberi finalmente di dare voce alle molteplicità stratificate nel nostro essere, qui e ora. Per un interprete formato a liberare l’interpretazione. Ripescando energie sopite, rivendicando il diritto d’ accedere all’ eccentrico, all’eccesso, all’inusitato, all’eslege, al maleducato, alle zone non solo storiche dell’espressione, ma a quelle – e fondamentali – mitiche.
Per le esercitazioni (su lettura, respiro, articolazione, percezione, interpretazione e via immaginando), approfitteremo d’un collage di testi rubati all’inossidato – poichè inossidabile – stracitato Shakespeare.
“Tutto il mondo è un teatro” – ragiona, fatalista, Jacques in “as you like it” così proseguendo – “ e gli uomini e le donne sono soltanto attori”, quasi a suggerire che, se la vita non è che una recita- ciascuno nel ruolo assegnato da circostanze, destino o fortuna- se per vivere ci si cala in un personaggio, maschera, “avatar”, profilo “fake” che dir si voglia, a discapito della persona, se prevale l’ apparire invece che l’ essere, se i nostri rapporti sono regolati da finzioni ( a volte machiavelliche) invece che da sincerità, non abbiamo proprio niente da rinfacciare agli attori e alle attrici che del mentire onestamente fanno la loro professione e, in qualche caso la propria ragione di vita. Essere ed apparire, fuori scena e dentro – salvo emergenze tragiche a rimetterne a posto i soqquadri- si sono rovesciati: si finge e recita nel mondo; si dice il vero e si vive in teatro. E’ commovente vedere come, eternamente scampanti a disastri personali e generali, alla deriva nel caos, sulle zattere dei nostri palcoscenici, esistano e insistano ancora interpreti a cercare, nelle parole, una qualche verità, che dia loro un soffio di vita.
“Non recitare, parla”, così alcuni grandi capocomici del passato tormentavano i loro attori. E altri, grandissimi, “alle prove imparate la parte, in scena dimenticatela”. Il teatro, a differenza dello spettacolo, non è un prodotto: è un prodursi. Circonferenza non raggiungibile ma cui l’attore / poligono – inscritto o circoscritto- tende per natura o cultura, aumentando il numero di lati. Da dentro espandendosi. Da fuori riducendosi. Nel desiderio di non mimarla, la vita – nel come se – ma di viverla, in scena- nel qui e ora- recita nella recita del mondo. Inconsueta, iperbolica, poetica: parola shakespeariana insomma, mai così utile, nella sua splendida, apparente, inutilità. Capace di spalancare altezze, come abissi; di essere quel che non è. Di questa magia, che Shakespeare riverbera su chi lo incarna, ci occuperemo. Alchemicamente, concretamente, creativamente. Nel semplice e nel difficile, nel visibile e nell’ invisibile, in profondità e in superficie: anche solo per la durata d’ un esercitazione, o di un sogno (di mezza estate).
Come suona – e risuona- Shakespeare in originale? Quanto e/o cosa si perde e/o si acquista nel tradurlo in una lingua come l’ italiano? Quanto si può forzarne la “lettera” senza tradirne lo “spirito” ? In che rapporto sta l’inglese di allora con l’inglese di oggi?
David Haughton, con la sua versatile sensibilità poetica, affinata in decenni di esperienza col suo amato, indimenticabile maestro Lindsay, ci accompagnerà in una full immersion, estroversa ed eccentrica, nei meandri delle sonorità e cadenze originali della lingua nelle opere shakespeariane, così come gli spettatori inglesi – tra la fine del ‘500 e gli inizi del ‘600 – potevano ascoltare, restituite dagli attori del Globe, tra i quali – guarda caso – figurava, straordinario interprete, un geniale clown (o fool che dir si voglia) per cui Shakespeare scriveva omettendo talvolta il nome del personaggio; indicando, per l’umiltà che il genio distingue (e in omaggio alla arte dell’ attore), semplicemente quello dell’ interprete: Will Kemp.
Scherma scenica e scherma agonistica, pur da comuni fondamentali, quanto ad esiti differiscono non poco, venendo quasi a costituirsi l’una come il contrario dell’altra. Nella scherma agonistica, infatti, ogni spettacolarità, salvo rare eccezioni, è accantonata, per dare spazio a tecnica, velocità d’ esecuzione, efficacia d’ attacco e difesa. Nella scherma scenica, viceversa, la tecnica è del tutto al servizio dello spettacolo, così da rendere un duello non solo credibile, ma efficace ed avvincente quanto a stile.
Si può così traslare da un punto all’ altro della scena appesi a un lampadario atterrando su di un tavolo; prendere a sciabolate candele e brocche; con un piede lanciarsi spade da impugnare al volo per continuare a combattere; e predisporre infinite altre variazioni sul tema.
La preparazione di un duello scenico diventa così una sorta di “regia nella regia”. Sequenze di colpi composte e scritte come in un copione, impostate, studiate con minuzia, poi provate, riprovate e memorizzate fino a risultare naturali, come nascessero spontanee. Da arricchire poi con rifiniture d’atteggiamento, smorfie, battute atte ad evidenziare i vari caratteri, dal guascone al pavido, dall’aggressivo al traditore, che diano senso ancor più compiuto all’azione, rendendola al meglio leggibile quanto credibile. Risultato che si ottiene partendo, ovvio, dalle tecniche basilari di sicurezza e incolumità, poi dalle lezioni di postura – variabile a seconda dell’epoca – passando ai fondamentali tecnici d’attacco e corrispondenti parate, per legare il tutto con alcuni primi scambi di colpi a coppie. Integrando nell’ attore, quel tanto d’ espressivo atletismo che gli consenta di gettarsi anima e corpo, sempre responsabilmente, nell’agone drammatico.
Forse poiché i tempi elisabettiani erano piuttosto rissosi e qualche attore – dei protagonisti almeno- la spada al fianco la portava davvero, anche nella vita, le opere di Shakespeare sono disseminate di duelli. Alcuni celeberrimi, come quello finale di Amleto con Laerte, scontro che da solo costituirebbe spettacolo; o quello di Riccardo Terzo, che vede il deforme re tiranno soccombere sotto i colpi del giovane Richmond; o quello, in Romeo e Giulietta, in cui a lasciarci le penne è l’estroso Mercuzio, per mano di Tebaldo, ragion per cui poco dopo, è lui a tirare le cuoia, per mano di Romeo. Lame affilate si incrociano, dal tragico al comico, anche in Macbeth, Coriolano, Tito Andronico; così come in Otello, La dodicesima notte, Come vi piace e nelle due parti dell’Enrico IV, impugnate malvolentieri dall’ eroicomico John Falstaff. Nel sogno (d’una notte d’estate) invece, le spade di Lisandro e Demetrio, rivali in amore per effetto del filtro magico del maldestro Puck, invece di incontrarsi continuano a rincorrersi a vuoto, per tutta la commedia, fino a scioglimento avvenuto, degli incanti.
Un paio tra queste “tenzoni“ shakespeariane, a scelta del maestro Musumeci Greco, saranno oggetto delle esercitazioni da lui dirette che – dopo le sopra citate lezioni comuni di base – comprenderanno per alcuni (a insindacabile giudizio del maestro) il montaggio di un’intera sequenza “duellata” (dialoghi compresi), da inserire nella “restituzione” pubblica finale.
È importante evidenziare eventuale conoscenza e utilizzo di strumenti musicali, esperienze di canto e di ballo, pratica di scherma e/o di altre discipline sportive o abilità di giocoleria.